BERLINGUER

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Eugenio Scalari intervista Enrico Berlinguer
«I partiti sono diventati macchine di potere»
" non fanno più politica, hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia".
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La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e
mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di
oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza
della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o
vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più
contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i
bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro
stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più
organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e
l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e
dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC:
Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita
ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più
o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della
crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno
occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti
culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi
c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di
questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di
stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e
spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le
"operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere
vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del
clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se
procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un
appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio
viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi,
anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
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Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma
vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo
accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del
paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti
italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle
sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto.
Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e
delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una
conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei
referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai
referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e
non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto
assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il
divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un
paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle
città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle
elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto
da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il
nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e
persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di
essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa
diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate
come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente
diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da
averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta
chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro
essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi
vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra
Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò
possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi
centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione,
organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle
istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere
tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri
e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta
di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e
umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità
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e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla
cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia
alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai
ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i
disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani
ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con
onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il
tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di
immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i
modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata
pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione
essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo
spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà,
dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema
imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in
qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso,
oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al
fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del
diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della
disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto
socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un
socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria,
s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente
organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che
si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una
politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in
tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca
e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a
realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e
i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere
adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali
trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la
tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione.
La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare
una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo
mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice
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trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti
tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di
amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti
noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia,
ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio
affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici
non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti
e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza
la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale
resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione
italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei
concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna
denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno
con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa
tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi
di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché
dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti
possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la
questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare
veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia
rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico
principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche
economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È
anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società
occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -
se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e
contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di
domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una
disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo
ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo
appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi
militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione
di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e
che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte
all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di
fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro
indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale
conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci
ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di
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tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a
sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i
consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare
nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto
contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che
l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che
avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo
e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo
di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla
recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al
nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando
soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta
franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come
al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile
ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci
vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e
intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
La Repubblica», 28 luglio 1981

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