Il re di Giordania a Strasburgo.



                                                      IL  RE DI GIORDANIA  A STRASBURGO  
 

 

Pigrizia e censura nella guerra al Califfo. Il re di Giordania a Strasburgo

 

Come un calciatore si giudica dal coraggio, il dibattito pubblico di un paese si giudica dalla sua capacità di interloquire con i punti di vista che si formano lontano da noi. E questo è ancor più vero nel mondo globale, in cui la comunicazione avviene in tempo reale e consente la formazione di una opinione pubblica consapevole. Nel dibattito nostrano, pigrizia e cinismo hanno spesso il sopravvento. Ogni elemento che esca da stereotipi e luoghi comuni viene vissuto con fastidio, specie se impone la rivisitazione di stanchi cliché.

È il caso del dibattito sul mondo arabo e sul pericolo terroristico. È un caso di scuola. Ore e ore di televisione urlata e falsamente coinvolta impongono da mesi agli italiani i soliti punti di vista dei buoni e dei cattivi. Opinioni stantie, spesso inutili e fuori tempo. Per non scardinare il meccanismo, ripetuto all'infinito, si evita perfino di guardare in faccia la realtà e di segnalare ciò che ci propone la cronaca. Meno elementi abbiamo per valutazioni accurate, più ci si accontenta di urlatori che propongono sensazioni senza contenuti.

Nessuna eco ha avuto in Italia il discorso del re haschemita di Giordania, Abdullah II, pronunciato martedì scorso in un'aula del Parlamento europeo gremita in ogni angolo e con la presenza di numerose rappresentanze diplomatiche. Era un giovane sovrano, adesso è un leader. Governa un paese chiave nella scena mediorientale, ma ancor di più esprime una chiave di lettura dei fenomeni in corso rappresentativa di una larga parte del mondo arabo. In questo momento, il suo paese è anche un punto di forza dell'alleanza contro i terroristi dell'Is.

A braccio, in un inglese molto americano, Abdullah II ha parlato agli europei per parlare al suo popolo. E lo ha fatto con una chiarezza inconsueta: "Questa è una lotta che deve essere portata avanti in primo luogo dalle nazioni musulmane. Questa è una lotta all'interno dell'Islam". Non lo dice il solito leghista che vuole battere il tasto sulla debolezza del mondo cosiddetto moderato. A parlare agli europei è un discendente della famiglia di Maometto. L'attacco del Califfato non ha niente di religioso, ma è una lotta per il potere che si estende sulla scena globale: "La minaccia non esiste soltanto in Siria o in Iraq. Ha colpito la Libia, lo Yemen, il Sinai, il Mali, la Nigeria, il Corno d'Africa, l'Asia, le Americhe e l'Australia. L'Europa ha sofferto per attacchi spregevoli e ha mostrato un coraggio imbattibile".

Dopo aver ricordato di aver marciato a Parigi con la moglie Rania per condannare la strage di Charlie Hebdo, ha proposto alcune riflessioni per incoraggiare un nuovo rapporto fra Europa e mondo arabo. Con una premessa, che fa i conti con il tratto estremista di un fondamentalismo anti-religioso. Il richiamo al Profeta è coraggioso: "Nessuno avrà fede fino a quando non amerà il suo prossimo come se stesso". Anche il Corano rilancia il precetto cristiano. E si tratta di quei valori dell'Islam che si insegnano a scuola, educando a "non distruggere o dissacrare un luogo dove è venerato Dio, sia esso una moschea, una chiesa o una sinagoga. (...) e noi non consentiremo ai terroristi di prendere in ostaggio la nostra religione".

La premessa non ammette incertezze. Per rivolgersi a un Occidente senza strategia, il sovrano ha chiesto di abbandonare ogni forma di islamofobia per non fare "il gioco degli estremisti" e si è interrogato sullo stato di salute del sistema internazionale. "Continuo a sentire la domanda: come mai il mondo non difende i diritti dei palestinesi? Il processo di pace è in stallo. E questa carenza invia un messaggio pericoloso perché erode la fiducia nel diritto internazionale e nella comunità internazionale. Minaccia i pilastri della pace mondiale e cioè che i conflitti devono essere risolti attraverso vie politiche e consegna agli estremisti un potente slogan. Sono loro che sfruttano le ingiustizie e il conflitto strisciante, per dare legittimità e reclutare combattenti stranieri in Europa e nel mondo". Contro la propaganda serve pensare al futuro e definire la rotta, ad esempio, verso una pace israelo-palestinese. Altra riflessione: la necessità di incoraggiare maggiore speranza.

"La radicalizzazione prospera proprio sull'esclusione e l'insicurezza economica". Il discorso, interrotto molte volte dagli applausi, ha fatto intendere quanto la sfida dell'Is non sia diplomatizzabile, di quanto lavoro serva per costruire un nuovo assetto internazionale e dare "a tutti i popoli il rispetto che vogliono e meritano". Era importante far conoscere all'opinione pubblica, preoccupata da una sfida globale, l'intervento del sovrano haschemita? Di certo, per ampliare la nostra conoscenza sulle riflessioni che impegnano il mondo arabo sempre in bilico fra conservazione e modernità; per valutare la determinazione di una nazione che si trova in prima linea nel contrasto militare al califfato islamico e nell'emergenza umanitaria ospitando migliaia di cristiani iracheni e 1,4 milioni di profughi siriani.

Un parallelismo, infine, ha colpito gli eurodeputati presenti a Strasburgo. "Ci sono persone che vivono in Europa oggi e che ricordano le devastazioni che hanno colpito il continente alla fine degli anni '30 e il conflitto mondiale che ne è seguito a causa di una ideologia aggressiva, espansionista basata sull'odio e sul disprezzo. Oggi stiamo combattendo una guerra simile". Il Califfato come il Terzo Reich un tempo, con la pretesa di assumere valori e tradizioni a sostegno della propria ideologia di morte e di potere. È accaduto in Europa, accade oggi nel mondo islamico. Come allora, una Europa in ordine sparso e senza strategia espone e si espone a minacce imprevedibili.

 
 
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