Nel breve termine, ci saranno sconvolgimenti enormi: alla fine guadagneremo posti di lavoro nei settori che sono in concorrenza con i prodotti di importazione, ma nell'immediato perderemo tantissimi posti di lavoro nei settori che esportano (compresa l'agricoltura) e in quei settori che attualmente sono parte di catene logistiche globali, come l'automobile e l'elettronica. Nel più lungo periodo, l'economia sarebbe semplicemente meno efficiente: invece di concentrarci sulle cose che sappiamo fare particolarmente bene, faremmo da soli tantissime cose ad alta intensità di manodopera. Non ho ancora visto una stima valida di quanto saremmo più poveri, ma sicuramente sarebbe peggio della Brexit, che secondo le stime più diffuse renderà la Gran Bretagna più povera di circa il 2 per cento.
Non stiamo parlando della fine del mondo, e nemmeno di una depressione grave. Solo un gran pasticcio nell'immediato e una zavorra sulla crescita economica nel lungo periodo.
Sostanzialmente la politica commerciale degli Stati Uniti va bene. I tempi andati, con tanti lavori nell’industria, non torneranno, qualunque cosa facciamo, e cercare di salvarne qualcuno stracciando le regole commerciali mondiali avrebbe moltissimi effetti collaterali spiacevoli. Io ero contrario al Partenariato transpacifico, ma non perché voglia un ritorno al protezionismo: il problema del Partenariato transpacifico era che non riguardava i commerci, ma più che altro la proprietà intellettuale (per esempio i brevetti farmaceutici) e la risoluzione delle controversie (più potere alle grandi aziende). Quello di cui abbiamo bisogno è impegnarci di più per l’assistenza sanitaria universale, fare molti più investimenti nelle infrastrutture, varare politiche per aiutare le famiglie e tornare a politiche che diano potere ai sindacati, specialmente nel settore dei servizi. Dire che il problema sono i commerci internazionali è solo un modo per schivare le soluzioni reali.
In sostanza, abbiamo disavanzi commerciali persistenti perché abbiamo un tasso di risparmio basso e rimaniamo un posto attraente per gli investitori stranieri. E il risultato è che gli Stati Uniti, che erano un Paese creditore prima di cominciare a registrare disavanzi persistenti, nel 1980, ora sono debitori netti. Ma bisogna mantenere la giusta prospettiva. La nostra «posizione netta sull’estero» – le attività in altri Paesi meno le passività – è intorno al -45% del Pil, che tutto sommato non è una grossa cifra. Per esempio, è meno del 10% della nostra ricchezza nazionale. E l’idea che questo dia agli stranieri un grande potere sull’America inverte l’ordine dei fattori. È il contrario, perché in un certo senso li rende nostri ostaggi: la Cina ha tantissimi soldi vincolati in America. Supponiamo che cerchino di portarli via: il peggio che potrebbe succedere sarebbe una caduta del dollaro, che sarebbe positiva per l’industria americana e infliggerebbe una perdita di capitale ai nostri creditori. Sono tante le cose che mi preoccupano: il nostro debito non è in cima alla lista.
Ricorderete forse che Bernie Sanders usava come esempio la Danimarca. È un buon esempio: salari molto più alti, una rete di sicurezza sociale molto più forte, una forza lavoro in gran parte sindacalizzata. Ma la Danimarca ha la stessa nostra apertura agli scambi commerciali. Sono le politiche interne, dalla tassazione e dalle decisioni di spesa alle politiche in favore dei lavoratori nel settore dei servizi, che fanno la differenza. L'assistenza sanitaria universale e il diritto di organizzarsi sindacalmente contano molto più della politica commerciale, per i lavoratori.
PAUL KRUGMAN , ECONOMISTA AMERICANO
Commenti
Posta un commento