Zina è una ventiduenne costretta dal corso delle cose a crescere in fretta e ad affrontare un mostro davanti al quale, spesso, ha creduto di non avere abbastanza forza per reagire: a partire dal 2014, infatti, la minoranza yazida, prevalentemente concentrata nel distretto del Sinjar, nel Nord del Kurdistan iracheno, diventa uno dei target dello Stato Islamico. Appena maggiorenne, Zina si trova ad abbandonare la sua vita per approdare nel campo profughi di Khankem e mettersi al riparo dagli attacchi dell’Isis. Appena maggiorenne, Zina si trova a dover mettere in discussione tutto e ad abbandonare la tranquillità di una vita fatta di amici, famiglia, vicini di casa per approdare nel campo profughi di Khankem e mettersi al riparo dagli attacchi dell’Isis. “Vengo dal Nord dell’Iraq dove conducevo una vita tranquilla. Volevo diventare medico ma a 18 anni tutto è cambiato. Ho dovuto fare i conti con la perdita di mio padre, un dolore che mi ha distrutta, e ho potuto visitare la sua tomba soltanto una volta perché, esattamente una settimana dopo, l’Isis ha attaccato la mia città.
Gli Yazidi sono stati vittime di ripetute persecuzioni ma questa non ha avuto eguali in quanto a violenza”. Il racconto di Zina, commosso e, al contempo, denotato da una lucidità del tutto inusuale in una ragazza con così poche primavere, colpisce il pubblico come un pugno allo stomaco, quasi costringendolo a scendere a patti con una realtà che, troppo spesso, l’informazione tende a non prendere minimamente in considerazione. Come se la distanza geografica sollevasse l’Occidente dal pensare a una parte di mondo che, giorno per giorno, si trova a lottare per la sopravvivenza. Come se i chilometri giustificassero l’indifferenza davanti all’orrore di vite stroncate e di sogni destinati a rimanere senza vita. “Ero a letto, sentivo rumori e grida. Mia madre ci ha svegliato, abbiamo raccolto cibo e acqua alla svelta. Confuse e spaventate, siamo scappate con i miei fratelli sulle montagne. Ricordo benissimo una donna sul ciglio della strada che piangeva perché la figlia era stata catturata. Dopo due giorni, senza acqua né cibo, siamo arrivati in cima. Le notizie che venivano dalla città erano terribili: gli uomini venivano uccisi, i bambini morivano di fame e sete, le madri non riuscivano a metterli in salvo. Abbiamo trascorso 11 giorni nella paura dell’Isis, fino a quando non siamo stati caricati su un camion per arrivare al campo profughi di Khankem.”
Zina e altre 8 ragazze yazide vengono coinvolte nel progetto “Photographic techniques to empower Yazidi girls”, organizzato da Unicef Italia e coordinato dalla giornalista curda Shayda Hessami. Ed è proprio l’arrivo a Khankem a segnare il riscatto di Zina e di altre 8 ragazze yazide che vengono coinvolte in un progetto organizzato in associazione con Unicef Italia e coordinato dalla giornalista curda Shayda Hessami, “Photographic techniques to empower Yazidi girls”, un’iniziativa che, di lì a un anno, le avrebbe permesso di trovare nel fotogiornalismo la mano tesa verso la rinascita. L’obiettivo fondamentale del corso era quello di aiutare le donne nelle zone di guerra a ritrovare il coraggio e la forza perduti e a superare la barriera del dolore smettendo i panni delle vittime e indossando quelli delle giornaliste, con una macchina fotografica al collo e una voce pronta a reclamare il diritto di esprimersi in libertà e di farsi ascoltare dal resto del mondo. Nel 2016 i lavori delle ragazze che hanno partecipato ai workshop e alle masterclass sono stati esposti in Iraq e in Italia (a Roma, al museo Maxxi) e le giovani yazide hanno avuto la possibilità di partecipare a programmi tv e conferenze, dove hanno raccontato le loro storie personali e mostrato le immagini di una terra distrutta dalla guerra, dalla fame, dal genocidio.
Oggi Zina ha 22 anni, studia giornalismo in Lituania, ha vinto una borsa di studio in Canada ed è in lizza per gli Emerging Young Leaders Awards 2018. È mingherlina, ha il viso piccolo e un sorriso timido ma ha la forza di una leader e la resilienza necessaria ad assumersi la responsabilità di portare nel mondo un messaggio di pace urgente, vitale, e far sì che migliaia di donne in zone di guerra abbiano la possibilità di essere ascoltate, proprio come è capitato a lei. Zina e Shayda continuano a lavorare fianco a fianco per portare avanti l’idea che il fotogiornalismo, a metà tra l’arte e l’informazione, possa essere la scialuppa di salvataggio di tante realtà alla ricerca di libertà, alla ricerca di vita lontano dal sordo detonare delle bombe.
GIANLUIGI MELUCCI BLOGGER
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