Perché il sole è giallo e il cielo è blu? Perché il gatto fa miao e il cane fa bau?
E potremmo, o meglio, i bimbi potrebbero continuare così per ore. Intorno ai due o tre anni entrano nella fase dei perché, quella in cui per gioco o curiosità ogni adulto nei paraggi viene preso di mira e sottoposto a una raffica infinita di domande concatenate, degne dei migliori quiz show televisivi.
Michela Garbosa, psicologa dell’età evolutiva e della famiglia, spiega come sopravvivere a questa fase ed evitare di dover comprare un’enciclopedia per poter stare al passo con i nostri bimbi.
La fase dei perché dipende dallo sviluppo del linguaggio e, di conseguenza, varia moltissimo da bambino a bambino. In linea molto generale potremmo dire che si verifica tra i due e i tre anni, dalla fine dell’ultimo anno di nido quindi, e può proseguire anche fino ai sette o otto anni – spiega la dottoressa Garbosa –. Oltre all’età e allo sviluppo conta, però, anche il carattere: è vero che le proprietà di linguaggio e la capacità di comprensione devono essere abbastanza spiccate, ma almeno in una prima fase si fa riferimento soprattutto anche al rapporto con gli adulti.
Questo significa che il bambino deve essere già piuttosto avanti con le competenze linguistiche, ma deve anche essere portato a interagire in maniera continua e così forte con un adulto, cosa che un bimbo più timido, riflessivo o introiettivo magari farà più difficilmente. Idealmente potremmo dividere la fase dei perché in due: la prima va dai due o tre anni, appunto, fino ai cinque o sei. In questo periodo è l’adulto ad essere l’unico riferimento per il piccolo.
A partire dai sei anni circa, con la scoperta della scrittura e della lettura e l’inizio della scuola, la “vittima” dei perché potrebbe anche diventare il fratello o la cugina più grande: il bambino vuole interagire anche con i suoi pari o simil-pari».
«A volte tutte queste domande sono più che altro un modo per attirare l’attenzione, soprattutto quando sono concatenate. Il fine non è (più) la risposta, ma l’interazione stessa. Un po’ come se il bimbo si dicesse “se il grande riesce a starmi dietro, allora io sono capace di interagire con lui”. Questa necessità di attenzione si verifica soprattutto quando i bimbi sono ancora piccoli, più crescono infatti e più le loro domande sono frutto di reale interesse, questo significa che si accontenteranno anche sempre meno di risposte sommarie».
Secondo la psicologa, quando proprio non ce la facciamo più, è assolutamente lecito tentare di interrompere la catena.
I modi che suggerisce sono:
- Distrarre il bambino;
- Proporre qualcosa di nuovo su cui focalizzare l’attenzione;
- Capovolgere la situazione e chiedere al piccolo il perché o secondo lui/lei cosa sta succedendo, coinvolgendo il bimbo in un tentativo di risposta, soprattutto se non si vuole spezzare l’interazione che si sta costruendo in quel momento;
- Porre un freno, spiegando che ora è il momento di andare a cena o che è ora di non fare più domande, ma che si potrebbe riprendere l’indomani o nel pomeriggio o in un qualsiasi altro momento.
Se dire la verità, edulcorare la realtà o dare una risposta falsa dipende, anche in questo caso, molto dall’età: «Prima dei cinque anni tendenzialmente è meglio dare una risposta giocosa, che affascini. A quest’età i bambini non ragionano ancora sulla base della logica e della razionalità, le loro categorie mentali si fondano sulla fantasia e sul gioco. Sarebbe inutile riempirli di informazioni troppo tecniche, logiche o razionali: non sanno spiegarsele. Tornando all’esempio del temporale, magari basta dire che sono gli angeli che giocano a bocce, come si faceva una volta. In questo tipo di risposte, chiaramente, entreranno poi in gioco le ideologie e le credenze dei genitori».
GIANLUIGI MELUCCI BLOGGER
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