NEL RICORDO DI BRUNO MUNARI 24 OTTOBRE 1907/30 SETTEMBRE 1998
FU IL PRIMO VERO DESIGNER A TUTTO TONDO DELL'ARTE ITALIANA
Ancora oggi, a vent’anni dalla sua morte, è difficile trovare una figura altrettanto completa: fu infatti architetto, grafico, progettista ma anche pedagogo, pubblicitario, illustratore, inventore, educatore.
Nella sua lunghissima carriera (morì a 91 anni pochi giorni dopo aver realizzato la sua ultima opera), attraversò campi disciplinari e movimenti artistici fra i più disparati: dal futurismo all’astrattismo, dall’arte cinetica alla filosofia zen, ma anche la pittura e la produzione industriale, le installazioni e la grafica editoriale.
Munari si occupò per tutta la vita di movimento, di luce, di creatività, di infanzia e di gioco.
I suoi temi più ricorrenti sono quelli infatti che riflettono sulla natura stessa del percorso progettuale e in particolare su come la fantasia, attributo che da infantile si fa universale, sia un motore da rigenerare in continuazione grazie alla sperimentazione e alla mancanza di limiti.
Era un «Peter Pan di statura leonardesca» secondo il critico d’arte Pierre Restany e di lui ci resta in effetti questa sfida sia ludica sia intellettuale, quella che lui stesso sintetizzava nel tentativo di «vedere l’arcobaleno di profilo».
Soprattutto dopo la nascita del figlio Alberto, Munari concentrò la sua attenzione teorica sull’infanzia e sulla sua potenza creativa: «Ci dobbiamo occupare dei bambini e dare loro la possibilità di formarsi una mentalità più elastica, più libera, meno bloccata, capace di decisioni».
Dai bimbi, da trattare con rispetto e intelligenza, si possono apprendere metodi sempre nuovi di interpretazione del mondo.
Da questo nascono opere indimenticabili come La Scimmietta Zizì (1953), in gomma piuma e modellabile in posizioni sempre diverse, oppure i Prelibri, oggetti senza testo ma pieni di colori, elementi tattili e manipolabili a piacere.
Lo scherzo, l’ironia provocatoria e la sferzante scomodità all’interno dei canoni tradizionali sono caratteristiche sempre presenti nell’espressione di Munari.
Non ci fu consuetudine che lui non puntasse a sfidare o ripensare: la Sedia per visite brevissime, ideata nel 1945 per Zanotta, ha la seduta inclinata per scoraggiare gli ospiti troppo chiacchieroni; i Fossili del 2000, invece, immergono nella plastica trasparente oggetti meccanici dismessi, come fossili nell’ambra. Tutto viene reinventato dal gioco.
Munari continua: «La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico proverbio cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche con molte».
Il suo, in effetti, è sempre stato un approccio volto alla ricerca di soluzioni semplici, essenziali, che utilizzassero innovazioni tecniche, nuovi materiali e soluzioni inedite per ottenere risultati più efficaci e sintetici.
E a volte l’unica strada per ottenere una semplificazione è quella di ripensare totalmente un oggetto: dalle Macchine inutili degli anni Trenta, che sono sculture prodotte da elementi geometrici appesi a fili, alla lampada da soffitto Falkland (1964), pensata in origine usando una maglia elastica prodotta in un calzificio.
In una delle sue opere più significative, Arte come mestiere, pubblicata nel 1966, Munari supera definitivamente la figura dell’artista come un divo eletto e profetico staccato dal resto della società.
Al contrario la nuova figura del designer è colui che utilizza l’arte come strumento per reinventare la vita quotidiana, fornendo soluzioni che siano utili, interpretabili e utilizzabili da tutti, oltre a essere esteticamente piacevoli.
«Occorre far capire che finché l'arte resta estranea ai problemi della vita, interessa solo a poche persone», scrive ancora, volendo far tramontare del tutto l’elitarismo che circonda certi circoli artistici.
Questa frase è in realtà di Confucio ma Bruno Munari la fece sua, citandola in più occasioni. L’artista fu molto affascinato dalla cultura orientale, anche grazie a numerosi viaggi in Giappone, da cui deriva una specie di pragmatismo che non rinuncia alla spiritualità.
E anche un senso di congiunzione fra l’utilità materiale e quella sociale: «L’individuo vale per quello che dà alla collettività e non per quello che prende», dichiarò in un’intervista.
Quando Munari mise in versi questa massima volle in qualche modo riassumere numerose delle critiche che gli venivano mosse in quegli anni ma anche, profeticamente, tutte quelle che nei decenni successivi e fino a oggi sono state rivolte all’arte contemporanea e al design più sperimentatore.
«Questo lo potevo fare anche io» è un atteggiamento che non tocca minimamente lo sforzo elaborativo e semplificatore di molto design contemporaneo.
Munari si fece interprete proprio di questo: uno stimolo ad abbassare i canoni della creazione artistica alla quotidianità e all’intellegibilità senza rinunciare però a una raffinatezza di pensiero e di risultato.
GIANLUIGI MELUCCI BLOGGER
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