La Francigena entrava in Italia attraverso il Gran San Bernardo, oltrepassava la Pianura Padana e poi l’Appennino attraverso la Cisa. Più a sud, seguiva il litorale tirrenico nei pressi dell’antica Aurelia per poi rientrare dolcemente all’interno, in Toscana.
Oltre, sulla Cassia, costeggiava il lago di Bolsena, quindi l’urbe di Viterbo e finalmente l’agognata meta, Roma.
La Via rappresentava un raggruppamento di arterie medievali d’importanza strategica e commerciale.
Con un quid di fervida fantasia, immaginiamo una confraternita di pellegrini in procinto di lasciare Roma dopo aver trascorso un periodo a mondarsi dei loro peccati terreni. La brama di ritornare nella loro Reims (Francia) è incontenibile.
Si tratta, tuttavia, di una marcia lunga, zeppa d’insidie e imprevisti. La nostra storia prende le mosse approssimativamente nel X secolo d.C.
Oramai lontani dall’Urbs Aeterna, dopo settimane di marcia pesante, gli impavidi erranti giungono ai piedi dell’Appennino. Anelano oltrepassare i monti, quindi scendere a valle, lungo le sponde tortuose del fiume Taro.
Sono consapevoli che alla fine troveranno la grande pianura. Confidando nell’aiuto del Signore, puntano a raggiungere il Po e in seguito proseguire verso le Alpi.
La fatica si fa sentire, come del resto la fame. Da parecchio si nutrono in modo frugale utilizzando il poco che ancora possiedono e ciò che Madre Natura dà loro.
L’ultimo pasto accettabile risale a qualche giorno addietro, presso un’Abbazia di religiosi benedettini. I monaci, zelanti osservatori della Regola di Benedetto da Norcia (regula monachorum anno 540 d. C.), hanno offerto pane a volontà, vino e una zuppa di borragine insaporita con tocchi grossolani di maiale.
Nei pressi di Berceto i pellegrini intravedono una stamberga e implorano asilo per la notte. Nella capanna dimorano dei braccianti, i quali, seppur in condizioni disagiate, riescono a donare un ristoro caldo ai Romei.
La cena – servita al crepuscolo – comprende una razione di pesce bollito* in acqua acidulata, castagne alla brace e rape calde. Si cena senza posate, con le mani, scambiandosi le poche coppe presenti sul tavolaccio per dissetarsi.
Il vitto, alquanto modesto, consente agli stremati camminatori di rifocillarsi e riprendere le forze perdute.
Genericamente l’ospitalità nei confronti dei viandanti era sentita e incoraggiata; durante il fortuito convivio i padroni di “casa” chiedevano agli ospiti ogni sorta d’informazione riguardante la loro esperienza. Questa cronaca orale, seppur non di rado “colorita” e assai poco veritiera, era una sorta di “telegiornale” ante litteram.
Il mattino seguente la sveglia è di buon ora, al canto del gallo. Il sole non si è ancora alzato, anche se le prime luci hanno “trionfato” sulle tenebre.
I pellegrini, dopo una veloce merenda a base di pane, frutta e vino, riprendono la strada verso il Po.
In verità, non sappiamo se riuscirono a oltrepassare le acque del grande fiume, né se terminarono l’estenuate viaggio alla volta di Reims.
È prudente che questo laconico racconto sfoci in un’atmosfera d’incertezza. Del resto, come premesso, è una novella fantomatica.
Eppure, gli eventi di quel tempo restano seducenti e pregni di curiosità.
I viaggi e le vicende di migliaia di pellegrini da e per Roma sono senza dubbio una delle pagine più espressive di tutta l’epopea medievale.
GIANLUIGI MELUCCI BLOGGER POTENTINO
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